Non c’è un punto di vista con cui guardare alle politiche sociali e all’amministrazione della res publica che in questo momento non provochi sdegno, incredulità e rabbia. Dall’assenza o degrado dei servizi pubblici all’aumento del costo della vita, inclusi i generi di prima necessità, abbiamo raggiunto livelli difficilmente sostenibili, o insostenibili, per circa il 25% delle famiglie italiane (dati Istat).
In tutta Italia si sta diffondendo una campagna di disobbedienza civile contro l’aumento delle bollette in cui spesso la rabbia è pacificamente sfogata bruciando le bollette (nonpaghiamo.it). Nel recente Global Strike, ho visto ragazze e ragazzi arrabbiati, giustamente arrabbiati, denunciare: lo sfruttamento minorile chiamato alternanza scuola-lavoro che non solo è vergognoso, ma può arrivare ad ucciderei e deve essere fermato subito; denunciare la mancanza di prospettive di lavoro, una scuola e università sempre più decadente nei contenuti e nelle strutture, una guerra anticostituzionale che non vuole nessuno, l’aumento dei costi dell’energia e ovviamente l’urgenza della conversione ecologicaii.
L’attuale sistema sociale, quello che nel bene e nel male ci ha condotto alle soglie della prima civiltà planetaria, è basato su un mito: “I soldi fanno la felicità”. In ogni angolo del pianeta, siamo cresciuti in qualche modo imbevuti di questo mito. Qualsiasi scelta ci troviamo a fare, per qualsiasi cosa, la facciamo rispondendo a domande tipo: “come spendo meno?”, “come ci guadagno di più?”. Siamo assolutamente convinti che ricevere sia più conveniente di dare. I migliori rappresentanti di questa forma mentis, sono ovviamente i “rappresentanti in carica”, “i nostri delegati”, i governatori del mondo, che, seguaci del dio denaro e asserviti alle grande imprese e al capitale speculativo, hanno permesso che negli ultimi 2 anni i miliardari che controllano le grandi imprese nei settori alimentare e energetico hanno visto aumentare le proprie fortune al ritmo di 1 miliardo ogni 2 giorni, mentre 1 milione di persone ogni 33 ore rischia di sprofondare in povertà estrema nel 2022iii. Hanno impoverito sempre più le popolazioni concentrando il ricavato del lavoro di tuttə nelle mani di pochissimi: L’ 1.1% della popolazione mondiale detiene il 45.8% della ricchezza mondiale; il 11.1% ne detiene un altro 39.1%; il 32,8% arriva all’13.7%, mentre il 55% della somma degli abitanti adulti di questo pianeta condivide solamente il 1.3% della ricchezza mondialeiv, ed è la fetta di popolazione con più bambini. In sintesi, il 12.2% della popolazione mondiale detiene l’85% della ricchezza, con un divario sempre più grande, e con conseguenze sull’ecosistema gravissime che minacciano la nostra stessa sopravvivenza su questo pianeta.
Ebbene, provare rabbia è assolutamente coerente, sano!
La rabbia è un sentimento importante, è un sentimento travolgente che dà coraggio, forza e energia, tanta energia. Tuttavia se la sfoghiamo meccanicamente indirizzando le nostre reazioni e richieste a coloro che sono complici del disastro, a coloro che ne hanno creato le condizioni, a coloro che non credono possa esserci una soluzione diversa che non provenga dal dio denaro, allora la rabbia risulta di fatto in un immenso spreco di energia.
Fondamentalmente, di fronte a qualsiasi tipo di violenza, ci sono due atteggiamenti meccanici di risposta: il ritiro silenzioso, frustrato, impotente: “tanto noi che ci possiamo fare?”, “tanto non cambia mai nulla” in cui quella violenza ce la portiamo dentro, con un impatto psico-emotivo devastante e la coscienza in fuga, assopita o anestetizzata da dipendenze che variano dalle serie tv, ai videogiochi, ai social, alle lotterie, alle sostanze/medicinali psicotropi più o meno legali. Alternativa alla fuga, c’è lo sfogo, la catarsi più o meno violenta o pacifica della rabbia che dà origine ad un lamentarsi continuo su tutto, ad un pessimismo di fondo, alla ricerca di rivendicazione o vendetta, a comportamenti a volte ugualmente vergognosi ma in direzione opposta a ciò che li ha provocati: “sono loro i primi che rubano, per cui rubo anch’io”. Questo porta ad una escalation senza fine e soprattutto ad una degradazione senza fine: a paragonarsi al peggio ci si rende sempre più mediocri. Dovremmo avere sempre gli occhi puntanti sui modelli a cui aspiriamo: “vorrei un mondo dove nessunə ruba, allora anche se rubano tuttə, io non rubo”.
Perché se è vero che nessuno è colpevole, di certo siamo tuttə responsabili della nostra coerenza tra ciò cui aspiriamo vedere nel mondo e ciò che mettiamo nel mondo.
La risposta in qualche forma violenta, verso noi stessi o verso fuori, la semplice reazione meccanica della fuga o della rivendicazione in attesa che “l’altrə o il sistema” cambi ci lascia esattamente dove siamo, a prescindere da quanto gridiamo per farci ascoltare. Possiamo sentirci dall’altra parte della moneta, ma siamo sempre sulla stessa moneta, in una ripetizione quotidiana e storica in cui siamo alternativamente vittime e carnefici.
Sembra evidente quindi che la semplice risposta meccanica, che sia fuga o reazione pari e contraria, alla violenza di questo sistema non porti assolutamente al cambiamento a cui aspiriamo. Anzi, la reazione meccanica alla crisi strutturale e profonda che sta attraversando il processo umano è totalmente funzionale al sistema che l’ha generata, perché non lo mette in discussione nelle sue radici profonde, perché non mette in discussione il mito, perché quell’energia sfogata è persa piuttosto che canalizzata sulla costruzione di una reale alternativa.
Ed è qui che si insinua l’unica alternativa valida, la nonviolenza attiva, che non è come spesso si pensa la semplice manifestazione pacifica senza rompere le vetrine o senza scontri violenti, ma è la ricerca intenzionale delle radici della violenza per poterla sradicare definitivamente nel mentre che si oppone una giusta resistenza. La violenza del sistema si appoggia su ciò che crediamo, che ci piaccia o meno, se riflettiamo onestamente su questa affermazione, ci renderemo conto della sua profonda e inesorabile verità. La prima credenza errata è “L’uomo è violento per natura”.
Si fa risalire ad Einstein questa citazione: “Non si può risolvere un problema con la stessa mentalità che l’ha generato.” Al di là che sia o no una reale citazione di una delle menti più rivoluzionarie dell’ultimo secolo, è senza dubbio l’affermazione di qualcosa che riconosciamo vero, un buonsenso diremmo, se questa parola non fosse diventata desueta. D’altra parte, se c’è una caratteristica che più di altre definisce ciò che è umano, ebbene credo sia senza dubbio la sua capacità di andare oltre lo stabilito, di immaginare l’inesistente e trasformare sé stesso e il mondo, la sua capacità di elevarsi dalla semplice risposta meccanica e istintiva, per agire in maniera intenzionale. Il suo non è essere “semplicemente naturale”. La capacità di riflettere sugli avvenimenti, di metterli in una prospettiva storica, sociale e individuale, ci dà la possibilità di agire e non solo reagire, ci dà la possibilità di proiettare nel mondo la nostra intenzione, liberandoci passo passo delle condizioni che ci opprimono e chiudono il futuro.
La storia ci insegna che l’essere umano nel suo processo si è alzato in piedi guardando al cielo; si è impadronito del fuoco vincendo la paura e qualsiasi istinto di fuga; si è organizzato in comunità per proteggersi meglio e trasformare la sopravvivenza in quella che sarebbe divenuta un’organizzazione sociale. La storia ci ha mostrato e ci mostra anche tanti errori o orrori che portano al declino di una civiltà. Ma quando un impero cade, quando una civiltà declina, un’altra le succede. Ed è evidente che stiamo di nuovo attraversando questo processo nella storia umana, ma questo momento, questo passaggio, ha una caratteristica nuova che porta ad una complessità che non abbiamo mai affrontato prima, quella che dobbiamo costruire è la prima civiltà planetaria della storia umana. Le diversità di culture, credenze, modi di strutturare la realtà, abitudini e costumi è tanta e tale, che necessariamente dobbiamo fare un salto nella nostra coscienza e passare, per dirne una, da una prospettiva individuale o legata ai propri cari immediati, diciamo dall’ “IO” al “NOI” riconoscendoci parte di una rete di 8 miliardi di persone, milioni di specie animali e l’intero ecosistema che garantisce la vita su questo pianeta, che è CASA NOSTRA. Un riconoscimento che non può limitarsi alle sole parole, ma che necessariamente deve essere accompagnato da un’esperienza profonda e individuale tale che porti al rifiuto della violenza interna ed esterna in qualsiasi delle sue forme: fisica, economica, culturale, psicologica, emotiva, di genere, di credo, ecologica.
Dobbiamo iniziare a chiederci, quale sarà il nuovo mito? “I soldi non fanno la felicità, ma aiutano”? Credete sia sufficiente questa piccola modifica? A mio parere no, sempre resta centrale il valore “denaro”, ovvero: “sì certo, c’è molto altro, però alla fine servono i soldi” e le mie scelte sempre restano condizionate da questo valore centrale.
Quello più sentito è certamente il mito di “un mondo migliore” anzi “un mondo migliore per tuttə”, che nella mia accezione significa senza alcuna discriminazione, una civiltà planetaria non per il mercato globale, ma per interculturalità e pluralità di forme e diversità, in cui ogni essere umano gode degli stessi diritti e di una vita degna con i bisogni di base risolti – cibo, casa, lavoro, vestiti, energia, acqua, istruzione, sanità, possibilità di spostarsi ovunque creda, possibilità di credere ed esprimersi liberamente – per il solo fatto che è natə e d’altra parte ogni essere umano è responsabile del benessere di tuttə, del rispetto e salvaguardia del pianeta e dell’ecosistema. In sintesi, una civiltà in cui si sarà raggiunta la comprensione che non c’è progresso se non di tuttə e per tuttə.
E a quali domande risponderebbe questo nuovo mito? Quali le domande alla base di qualsiasi decisione? A me viene da dire “cosa porta maggior benessere a “NOI”? O “come ottenere maggior benessere per “NOI”?”. I valori centrali di “soldi e profitto” sostituiti da “salute e istruzione”, riconoscere che ricevere ci piace, ma l’esperienza del dare disinteressato è impagabile, perché come ben sappiamo non tutto ha un prezzo.
Bene, e come si costruisce questa alternativa, questo “mondo migliore”? Continuiamo a gridare la nostra sofferenza e rabbia sempre più forte con l’aspettativa che coloro che non ci ascoltano finalmente lo facciano e si facciano coerentemente carico della delega che viene data al momento delle elezioni? Crediamo che con la “lotta dura” potremmo arrivare alla ridistribuzione delle ricchezze? Crediamo che il seme di questa nuova civiltà possa alimentarsi all’interno di questo sistema disumano e violento?
Credo che ognuno di noi porti in seno questo seme e ha la responsabilità di farlo crescere giorno dopo giorno facendo crescere la coerenza delle proprie azioni verso i modelli a cui aspira senza più delegare e nella forma che meglio gli/le si addice.
Credo che la rabbia debba essere motore di trasformazione e tradursi in capacità di dare risposte creative e valide alla rete complessa di problemi che affliggono il nostro presente e futuro; credo che quell’energia debba essere impiegata per organizzare un’alternativa crescente mentre si fa il vuoto a questo sistema morente e all’insolenza e ignoranza dei governanti. Credo che chi porta avanti questo sistema siamo noi, il nostro lavoro quotidiano, sotto un ricatto economico da usurai che chiamiamo stipendio. Troppe volte siamo complici silenziosi mentre la rabbia ci morde dentro. E quante volte ci siamo ritrovati a dire “tu fatti gli affari tuoi, non ti mettere in mezzo” difronte ad una ingiustizia?
È ora di fare basta! Fare basta significa assumersi la responsabilità di agire coerentemente con ciò che pensiamo e sentiamo, significa superare la violenza in noi e fuori di noi, senza pragmatismo che tenga.
Iniziamo a ricordarci chi vogliamo essere; impariamo a trattare l’altrə come vorremmo essere trattatə; a riconoscere la violenza interna e esterna; ad opporre la giusta resistenza; a creare le condizioni di un adattamento crescente modificando, coerentemente giorno dopo giorno per quanto possiamo e nella direzione a cui aspiriamo, le condizioni in cui ci troviamo a vivere. Creiamo intelligenza d’insieme unendo la creatività giovanile, con l’esperienza, la professionalità e la competenza dei meno giovani. Organizziamo campagne di disobbedienza civile consapevolmente nonviolente, per svuotare sempre più il sistema, per non collaborare o farlo sempre meno, per essere sempre meno complici: dall’autoriduzione delle bollette, all’aumento degli orti condivisi e delle relazioni dirette tra produttori e consumatori locali; boicottiamo prodotti specifici di varie aziende che affamano i popoli dei paesi più poveri; spegniamo la TV; organizziamo una rete di trasporti condivisa e rafforziamo le reti di solidarietà per i più sfortunati; diamo vita nei quartieri alle banche del tempo dove ognuno mette a disposizione la sua competenza per il tempo che può: una rete di medici, avvocati, insegnanti, fiscalisti, artisti di ogni tipo, panettieri, calzolai, aiutanti domestici, cuochi, contadini… tutti e tutte abbiamo qualcosa di prezioso da dare arricchendoci dei doni dell’altrə. Andiamo nei quartieri più poveri portando speranza e coraggio per trasformare la rabbia nella ricostruzione di un tessuto sociale solidale e organizzato. Sono tante le forme di auto-organizzazione e relazione sociale, assai di più e migliori di quelle che arrivo ad immaginare e molte già messe in moto dalla miriade di organizzazioni sociali che da tempo hanno intrapreso questo cammino.
Non siamo semplici “consumatori”, siamo il 90% della popolazione mondiale, siamo noi con il nostro lavoro che alimentiamo il sistema, abbiamo un immenso potere ma non crediamo di averlo perché siamo convinti che per fare la rivoluzione servano soldi o scontri o entrambi, e invece serve consapevolezza e fede in NOI, una rivoluzione interna in ognuno di noi per farci strutturare la realtà in modo nuovo, per farci immaginare e creare “il mondo migliore” attraverso un’organizzazione d’insieme di tanti piccoli nodi, tutti collegati e solidali.
Non sto dicendo che sia facile, né che sia domani, sto dicendo che, se davvero avvertiamo l’urgenza e la necessità di un cambiamento, bisogna prendere coscienza di chi siamo e dove andiamo,
bisogna che ci assumiamo la responsabilità di essere il cambiamento che vogliamo vedere nel mondo, come diceva Gandhi.
Serve prendere consapevolezza del mito che opera in noi, serve eventualmente agire intenzionalmente sulle nostre credenze, serve superare la violenza che è in noi e fuori di noi, serve imparare ad essere coerenti con noi stessi e con le nostre aspirazioni, serve trovare solidarietà e sostegno in chi ci circonda e non sentirci soli, serve trasformare la paura e la rabbia in forza e fiducia per aprire il futuro.
La rivoluzione nonviolenta è necessaria e l’unica via d’uscita.
Federica Fratini
Europa per la Pace